| Anno 0 Numero 02 Del 21 – 5 – 2007 |
| Architetture e mercati |
| Considerazioni sulle performance di Ti con Zero, Teatroblue e Giano. |
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| Gian Maria Tosatti |
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Assolutamente eterogenei si dimostano i percorsi performativi ambientati nei lotti della Garbatella. E’ un tratto assolutamente distintivo nel carattere di questi Teatri di Vetro, che sono prima di tutto una fiera/mercato, ossia un luogo in cui i prodotti sono messi in mostra per essere venduti nei più diversi contesti.
Ti con Zero, in questo quadro, presenta STRAP, una installazione dal carattere didattico, pensata in primo luogo per un pubblico di ragazzi. Al centro c’è il processo di fabbricazione della carta di stracci, un’attività produttiva ormai quasi del tutto perduta, ma estremamente affascinante. A raccontarlo è Fernanda Pessolano aiutata da un gruppo di performers e attori impegnati nella creazione di immagini poetiche attraverso le quali scandire concretamente l’iter che, dalla cernita degli stracci, porta alla produzione dei fogli. Una esperienza particolarmente interessante per i bambini, che alla fine hanno la possibilità di partecipare ad un laboratorio per imparare a produrre in casa la carta come si faceva nei secoli passati. Il teatro qui è uno strumento di divulgazione per una attività che vede non tanto nel circuito dell’arte, quanto in quello dell’educazione, il suo mercato.
Meno convincente La voce di Teatroblue, una lettura vocalizzata abbastanza tradizionale che a differenza dell’altro lavoro ha meno chiari i suoi obiettivi e resta un esercizio attoriale che fatica un po’ a far presa sull’interesse dello spettatore.
Ipnotica è, invece, la peformance di Giano intitolata Tensioni. In essa c’è la profonda consapevolezza nell’interazione con l’ambiente che già avevamo avuto modo di constatare nel progetto di Zeitgeist in cui Maddalena Gana e Giordano Giorgi, autori e interpreti di questo lavoro, avevano partecipato nei giorni scorsi. Eccoci allora in questo cortile di un ogni luogo, esposti alla calata del tempo. Un campo di vento. Un perimetro di concentramento pieno di bottiglie appese. Un altrove sovrascritto su un altro altrove architettonico. La lentezza del movimento che procede per inerzia, che scorre. A strappi di corrente i tagli dell’archetto sul contrabbasso sbattono contro gli urti di vetri. Un uomo e una ragazza attraversano uno spazio di sospensioni, in cui ogni cedimento, ogni resa è un atto totale. Non c’è un racconto. Piuttosto la capacità di rendere un’esperienza sensibile ciò che la poesia permette solo alla percezione della mente, attraversare quei panorami da realismo magico, in cui soffia il vento di certi versi di Saba, di Montale o quello che impolvera le sere di Attilio Bertolucci. Tuttavia osservando quest’opera la riflessione che viene suggerita riguarda qualcosa che esula dal singolo lavoro e finisce per riguardare il senso etico di una architettura dinamica che “dostoevskianamente” può essere agente di mutamento sociale in quanto principio di condivisione quotidiana della bellezza. E’ una considerazione figlia di questi giorni in cui il contesto architettonico della Garbatella si sposa con l’ispirazione di artisti e coreografi che hanno fatto dello spazio un bacino di amplificazione delle proprie visioni producendo il coinvolgimento attivo di gruppi di pubblico solitamente lontani dai teatri eppure decisi a modificare le proprie socio-traiettorie quotidiane stimolati dalle suggestioni di quest’arte da cortile. Le donne più riservate, dalle proprie fiestre ombrose osservano in silenzio dietro il velo delle zanzariere. |
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| Anno 1 Numero 21a Del 25 – 5 – 2008 |
| Le tre variazioni |
| Tre possibilità per il butoh della scuola romana nei lavori di Giano, Pintus e Bonci |
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| Mariateresa Surianello |
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Sono le 11 della sera quando gli spettatori della maratona coreografica di Teatri di Vetro entrano nel Lotto 14 della Garbatella. Nel silenzio quasi irreale di quel grande cortile si odono i passi di chi arriva. Giano sta già abitando lo spazio che nel pomeriggio ha trasformato in quell’inferno impalpabile e trasparente in cui ora si muovono Giordano Giorgi e Maddalena Gana. La struttura architettonica su piani diversi, collegati da piccole rampe di scale, discese e salitelle, rende il luogo deputato a La deposizione di Euridice – lo stenditoio – un’orchestra naturale, alla stregua dei declivi che ipotizziamo accogliessero i riti dionisiaci all’origine del teatro greco. Di questo stenditoio Giano moltiplica i motivi con gli enormi teli di plastica leggerissima appesi lungo l’entrata al Lotto, e vi riveste anche il pavimento dell’area rettangolare sopra la quale carponi avanza Orfeo-Giorgi per incontrare la sua Euridice-Gana. La relazione tra maschile e femminile è uno dei temi ritornanti nel lavoro dalla compagnia romana, fondata nel 2004 dagli stessi Giorgi e Gana, come la dualità del suo nome preannuncia.
Altri due drappi trasparenti e fluttuanti dividono la scena dell’azione da quella musicale, da dove Roberto Bellatalla rompe il silenzio e completa col suo contrabbasso l’atmosfera del quadro performativo. In questa rilettura del mito, quando avviene l’incontro dei due amanti, e Orfeo afferra Euridice sollevandola in aria, si spezza l’incanto: la presa dell’uomo diventa il morso del serpente che fa precipitare la donna nell’Ade. Così, Maddalena Gana, danzatrice butho, coperta dalla tunichetta di un penitente colore viola, inizia lente e inesorabili flessioni del busto, prima laterali per inarcarsi poi lentissimamente fino ad assumere una faticosa postura rovesciata a quattro zampe. Mentre Orfeo, lacerato il telo di plastica che ricopre il pavimento, si inabissa nella ricerca della sua sposa. Sparisce alla vista e scivola sotto quel telo rigonfiandolo come un verme delle sabbie del lynchiano Dune. Fino a ritrovarla la sua Euridice, per trascinarne via – verso il mondo dei vivi – solo dei miseri pezzi, brandelli forse dell’elaborazione del suo lutto, tracce del suo pensiero in cerca di riconciliazione con l’altra parte vicina e diversa da sé. Quaranta minuti di grande suggestione che neanche le trombette da stadio e i fuochi d’artificio per la vittoria della Roma contro l’Inter nel finale riescono a spezzare. Felicità, canti e cori circondano il Lotto 14. Cortei di macchine imbandierate si avviano verso il centro, ma la città del potere è blindata, in questo nuovo clima politico, la festa si deve consumare fuori dal salotto buono. E fuori dal centro si consumano anche i pestaggi contro gli immigrati del Pigneto, ieri pomeriggio, e gli assalti alle loro attività commerciali. Ma noi proseguiamo l’intensa vetrina coreografica, lasciamo il Lotto 14 e con pochi passi siamo di nuovo al Palladium, dove la scena è pronta per lo spettacolo di V.I.T.R.I.O.L., una sorta di contrappasso tecnologico al lavoro iper naturale di Giano. La visione di Si sedes non is è offerta dall’alto, dalla galleria, da qui si apprezza il cerchio bianco sul quale giace immobile Alessandro Pintus, mentre sul fondo il grande schermo sputa immagini astratte, forse macro, di tessuti e organi umani. Si distinguono architravi e porte verso un fuori, che forse potrebbe essere un dentro, in questo spettacolo ispirato a quel luogo esoterico che è la Porta Magica della romana piazza Vittorio. Ricoperto di biacca bianca, il danzatore inizia il movimento uscito dalla sua pratica butoh, prima a terra e poi in piedi, in un crescendo di frenesia coniugato alle proiezioni e al sonoro sintetico, prodotti dal vivo. Sulla sinistra del palcoscenico sono le postazioni di Simone Palma, addetto alla “luce”, e Gerardo Greco, addetto alla “vibrazione”. E il teatro vibra davvero nell’innalzarsi dei decibel, fino al parossismo di un corpo, che sembra ormai caduto in una trance sciamanica. E la ricerca nel butoh caratterizza anche Secrezioni di Francesca Bonci, a riconferma di quanto questo metodo sia frequentato nella Capitale (La differenza ne ha dato conto in diversi numeri), nell’ultimo decennio. Mostratasi dapprima come una tendenza, ora questo ricorrere di esperienze butoh rappresenta una vera e propria “scuola romana”, diversificata e ricca di espressioni, spesso però ancora troppo sperimentali e introiettate. L’estrema libertà che lascia nel corpo e nella mente l’utilizzo del metodo fondato da Kazuo Ohno e Tatsumi Hijikata, talvolta impedisce un approccio rigoroso al proprio corpo che è l’unico strumento attraverso il quale esce l’intenzione della mente. |
http://www.differenza.org/articolo.asp?sezione=archivio&ID=240
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Articolo pubblicato sul quotidiano “Avanti!” il 28 aprile 2007 nella rubrica Libri & Cultura
La “Rivoltura” messa in scena da Maddalena Gana e Giordano Giorgi al teatro Furio Camillo
Chi semina vento raccoglie tempesta
di Sergio Gilles Lacavalla
Il vento a Folegandros cambia all’improvviso. Dall’isola al mare e poi di nuovo dal Mediterraneo a quel pezzo di terra sopra a Creta deserto anche ad agosto quando la gente va in vacanza. Diventando foltissimo. È un attimo che ti sconvolge. I vecchi uomini di mare della provincia d’Ancona, che ne hanno viste tante sui loro pescherecci, e che subiscono anche loro il vento di burrasca, lo chiamano “rivoltura” e sanno che con esso, che avvertono guardando l’orizzonte fattosi minaccioso e scuro e l’acqua del mare bianca di schiuma, non è il caso di uscire con le barche: ne rivolterebbe gli scafi come rivolta gli uomini e i loro pensieri. Rabbrividisce la pelle e increspa gli stati d’animo. E dà voce al silenzio: come una lingua senza parole che ha solo il suo suono. Da sud a nord. Dalla stasi al movimento. Dal cielo terso che si corruga di bufera. Da come siamo stati a come saremo. In mezzo c’è l’isola del come siamo, il cui paesaggio cambia col vento. In Grecia forse i marinai gli danno un altro nome, ma il vento di “rivoltura” è uguale lì e su ogni costa. E uguali sono gli uomini e le donne quando sono soli nell’isola del loro rapporto circondato dal mare di una comunicazione che, come le onde portate dal vento, si infrange su di loro: a piccole onde silenziose, e poi in fragorosa tempesta. Da levante a ponente e da ponente a levante. Da sud-ovest al nord dei sentimenti. Dalle parole non dette a quelle che non si diranno mai ma si lasceranno capire, si faranno entrare. Da ovunque o solo da un preciso posto, in un solo momento.
Maddalena Gana, danzatrice butoh e attrice di stati d’animo epidermici, e Giordano Giorgi, performer dei passi della materia, hanno scelto la fine dell’estate per abbandonarsi nell’isola delle Cicladi al vento di “Rivoltura”: soli sotto una tenda per sentire il vento e lasciarsi cambiare. “Chi semina vento raccoglie tempesta”, dice il sottotitolo del loro bellissimo spettacolo (al Teatro Furio Camillo di Roma per “Trasform’azioni 07”) che prende il nome da quel vento. E così loro si sono recati lì per seminare il vento del proprio lasciarsi andare al fenomeno di una meteorologia della natura e dell’anima che porta quell’aria d’uragano (in un progetto sulle materie naturali che si svilupperà toccando anche la terra, l’acqua, il legno e il fuoco): lì per ascoltare il suono del vento e registrare l’armonia e la dissonanza di una relazione con se stessi e le proprie interiorità. La comunicazione e l’incomunicabilità di un uomo e di una donna che si affidano agli elementi. Senza nessuna resistenza. Accettando la “rivoltura”. Lei è “una Fata senza mutande”, lo splendido personaggio da scena post-butoh che si è inventata Maddalena Gana, “il sopra è di sogno e il sotto di carne animale. Il viso d’infanzia”.
E se ne sta là, all’inizio dello spettacolo, seduta a terra sotto una tenda di cellophane e d’aria, ferma a guardare davanti a sé.
Aspettando il vento. Lui è “Mercurio (dal latino merx: merce). La merce è sempre in viaggio. Il viaggio è spostarsi. Mercurio è la divinità protettrice dei viaggiatori e dei commercianti; è un soggetto che permette il transito, che in definitiva trasporta. Se è tutto lo spazio e il tempo del viaggio, di per sé non viene ne arriva, è il viaggio stesso, è l’idea dello spostarsi ed è l’altro luogo”. E si muove continuamente. Prima dietro al vento, accennando il vento con gambi fiore piume di struzzo. Poi sotto la tenda del rapporto. Silenzioso. Vento. “Mercurio vittima e protettore del moto”. Dentro la tenda per creare il vento che cambierà se stesso e la Fata. La Fata che accoglie il vento e da esso si fa spogliare spogliandosi dalle sue immobilità interiori e nelle contraddizioni e i dubbi e da ciò che era per ospitare il fiato e la corrente della trasformazione. “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Ma la tempesta ha il suo senso: serve a cambiare il paesaggio. Dopo la burrasca, l’isola è piena di conchiglie. Dopo l’uragano siamo costretti a guardare cosa è successo al nostro ambiente. “Rivoltura” è il territorio di un uomo e di una donna che provocano e accettano il mutamento di se stessi come individualità e come rapporto. Senza parole, ancora senza parole, perché già i corpi e i loro movimenti sono linguaggio. Perché il vento è il significato delle parole privato dai simboli delle parole, dai codici, e suona nei pensieri e in una musica carica di evocazioni da dream rock (eseguita in un angolo appartato da un bravissimo Mattia Coletti): il suono dei nostri ricordi e dei ricordi che ancora devono venire, la musica che segue due esseri chiusi nello spazio dischiuso del loro incontro dove l’apertura è necessaria per entrare nel centro di una relazione che esiste soltanto nel cambiamento. In quanto cambiamento.
Anche se impercettibile. Pure se evidente come una tenda soffiata via dal vento di “rivoltura”. La Fata è donna di viso di bambola glam di porcellana e corpo di carne esile e tenace. Di piccoli seni che come dune di sabbia seguono il movimento del corpo piegato dal vento e di ventre scoperto che è cespuglio di nascita e piacere per quel vento: donato a quel vento. Mercurio è l’elemento che delimita il luogo della Fata, che ne viola la solitudine, che alita le sue parole (in una splendida sequenza su pannelli di plastica trasparente) coperte dalla musica di maestrale. Mercurio che la tocca, è sotto di lei, quando anche lei è giù, caduta ripetutamente nuda e indifesa, debole eppure forte, al suolo di terra e aria travolta da quella corrente; è sotto il suo territorio soffiato e aperto dal vento che lui ha portato con sé perché nel terreno rivoltato dalla “rivoltura” c’è la possibilità di compiere il loro rapporto. O di ucciderlo. Che in fin dei conti poi è la stessa cosa. “Rivoltura” è uno spettacolo carico di suggestioni in cui il vento che mette in scena lo senti dal primo all’ultimo momento in un costruirsi continuo di immagini evocative (anche quando un paio di soluzioni di Giordano Giorgi non sono ancora perfettamente centrate): un continuo di variazioni di relazioni e di stati d’animo incarnati che i due performer, sotto la sigla Giano (“Antico dio romano, divinità degli inizi e dei passaggi, quindi delle soglie, delle porte che egli apriva e chiudeva”), rendono magia. Non a caso Maddalena è una Fata. “Una Fata senza mutande” perché le vere fate, si sa, si liberano dell’indumento intimo in quanto fatte di sogni di carne e hanno capito che gli umori sono stati d’animo e reazioni corporee, risposte ai pensieri e agli eventi e al contatto fisico. Sensibili al vento quando il vento ti libera dal passato e ti riporta ciò che è stato nel ricordo di un rapporto vissuto fino in fondo, o solo sfiorato, che importa, e rinnova quello del momento. Sensibili al vento quando il vento è carezza sulla pelle a esso donata e esposta o schiaffo sull’epidermide che rabbrividisce. Sensibili al vento perché il vento ti cambia, se non hai paura di ripararti in una tenda fatta d’aria. Anche se la “rivoltura” la distruggerà.